Il dialogare delle pietre

Il dialogare delle pietre

Quando parlo di Ermanno Casasco, paesaggista di grande visione, mi viene naturale raccontare il suo modo di vedere e i lavori che l’hanno reso noto. Uno dei suoi progetti più interessanti è sicuramente la cantina Lunelli/il Carapace con la scultura  di Arnaldo Pomodoro. Ricordo come Ermanno descrive la lavorazione del terreno: lo scavo iniziale, la montagna di terra accanto e poi, quasi per magia, il giorno dopo la scultura/cantina che sembrava nascere dalla terra stessa, integrandosi perfettamente in un paesaggio che pare non essere mai stato toccato dalla mano dell’uomo. Questo è il suo tratto distintivo: modellare il terreno affinché sembri sempre parte della natura, senza interventi evidenti.

Ermanno ha portato questo approccio anche a Bodrum, dove ha realizzato un progetto complesso che include un laghetto scavato attorno ad una  roccia e una piscina circondata da terrazze che si estendono fino al mare. Ogni volta che parla di questo lavoro, mi trasmette l’emozione di creare spazi in cui l’architettura si fonde con la natura circostante, come se non ci fosse alcuna divisione tra l’opera umana e il paesaggio naturale, e dove l'orizzonte, il paesaggio circostante si fonde con il giardino che si sta costruendo. Anche a Saint-Tropez, ricordo le colline che aveva modellato con le ruspe per dare al terreno un aspetto completamente organico e armonioso.

Uno dei momenti più significativi, a mio parere, è stata la sua riflessione su un giardino realizzato negli anni Ottanta a Bordighera. In quell’occasione, Ermanno aveva sollevato il terreno affinché il prato verde si allineasse perfettamente con l’orizzonte del mare. Mi racconta come questa visione, quella di un giardino che si espande senza confini, fosse per lui fondamentale. E infatti, replicò questo concetto anche a Torba e in altri luoghi come Ayvalik, dove il prato sembra fondersi con l’azzurro del mare, offrendo a chi vi si trova una sensazione di apertura e libertà senza limiti.

Un’altra intervento curioso è stata il Minoa, in Sicilia, dove ha creato una barriera di terra per proteggere il luogo dai venti e celarlo alla vista di case fatiscenti in lontananza. Così, una volta entrati, si viene accolti in un mondo separato, un angolo speciale e nuovo, in cui sembra di essere trasportati lontano dal tempo presente. Al Baglio d’Elia, sempre in Sicilia, il suo lavoro assume un valore ancora più simbolico: mentre sistemava le pietre insieme a un giovane siriano, il ragazzo osservò che sembrava che le pietre parlassero tra loro. Anche l’operatore della ruspa notò la stessa cosa, affermando che la disposizione creava un dialogo silenzioso tra gli elementi, come se ogni pietra fosse portatrice di una storia da raccontare.

Ermanno è critico verso alcune scelte estetiche comuni nei giardini moderni. Mi parla spesso della sua riluttanza a usare le graminacee, nonostante la loro bellezza immediata. Le considera piante effimere, incapaci di contribuire alla creazione di un giardino che possa durare e crescere negli anni. “Un giardino vero,” dice, “deve essere un’eredità.” Mi spiega che piantare alberi è un gesto di cura per il futuro, un ponte tra generazioni. Come i nostri antenati ci hanno lasciato maestosi alberi che oggi ammiriamo, così dobbiamo pensare a chi verrà dopo di noi. Un esempio toccante che spesso cita è quello degli alberi piantati a Montruglio dal padre di Fulceri, i cui discendenti oggi godono della loro ombra e bellezza.

La sua visione del giardino ideale è chiara: non dove essere limitato da recinzioni, ma aprirsi verso il paesaggio, verso il cielo, cancellando i confini visibili. Questo senso di infinito e libertà è parte integrante del suo lavoro, un’idea che trasforma ogni spazio in un’esperienza unica, dove la mente può spaziare senza ostacoli.

Parlando di Ermanno, mi rendo conto che le sue opere sono più che semplici giardini; sono racconti che intrecciano natura, tempo e memoria. Lavori che, a distanza di decenni, non perdono la loro essenza, ma anzi, crescono e maturano insieme a chi li vive. Visitabili e vivibili dopo venti e trenta anni dalla loro realizzazione.